Vittorio Storaro è una di quelle figure che rappresentano una scissione, un prima e un dopo. Prima di Vittorio Storaro, il direttore della fotografia era visto semplicemente come un esecutore; un lavoro tecnico che sottostava alle direttive del regista, il vero autore del film. Dopo le sue svariate collaborazioni, Storaro ha insegnato all’industria cinematografica occidentale che la luce innanzitutto è un mezzo espressivo, una firma dell’immagine in movimento; che l’illuminazione rappresenta la tonalità emotiva di una scena, ed è in grado di guidare la resa narrativa.
Vittorio Storaro non è mai stato un amante della definizione di direttore della fotografia, a suo avviso una misinterpretazione del ruolo dovuta alla traduzione italiana di cinematographer, la parola utilizzata per definire il lavoro negli Stati Uniti. Nell’arco della sua carriera ha creato un linguaggio in grado di comunicare la funzione figurativa di un’immagine, superando quella della sola temporalità del racconto.
Da Roma agli Oscar: la carriera di Storaro
Oggi Vittorio Storaro, 83 anni e tre premi Oscar, è considerato una figura di riferimento per la gestione della luce sul set a livello internazionale. Nato a Roma nel 1940, già all’età di 11 anni, inizia a studiare all’Istituto Tecnico di Roma Duca d’Aosta e poi al Centro Sperimentale di Cinematografia. Diplomatosi nel 1961 esordisce nel lungometraggio Giovinezza Giovinezza di Franco Rossi, che sarà l’unico film in bianco e nero a cui lavorerà. La pratica di Vittorio Storaro, infatti, va inserita all’interno della cornice del cinema a colori, in quanto è il colore ad essere l’oggetto che più lo affascina nella gestione della luce.
Storaro e Bertolucci, luce e regia in dialogo
Un passaggio emblematico nella carriera di Vittorio Storaro è il lavoro nato dalla collaborazione con Bernardo Bertolucci. Si conoscono molto giovani, lui ha 23 anni, Bertolucci 22. Il primo film insieme, però, arriverà solo nel 1970, con La strategia del ragno. Il lungometraggio introduce alcuni degli aspetti dello stile di Storaro, ancora in erba: una luce naturale che accompagna lo spaesamento del protagonista Athos Magnani, in un viaggio tra le campagne padane alla ricerca delle tracce del passato del padre antifascista. La collaborazione con Bertolucci che ha maggiormente segnato la carriera di Storaro, nonché la storia del cinema moderno, è stata quella per il film Il conformista.
Dramma politico ambientato durante il ventennio fascista, Il conformista rappresenta il primo banco di prova per Storaro per esprimere la sua poetica. Il film, ambientato tra Roma e Parigi, vede nella costruzione di un conflitto tra luce naturale e artificiale la trasposizione della dialettica tra fascismo e antifascismo, tra dentro e fuori: toni caldi per gli interni e gelidi per gli esterni. Ma ciò che la luce compone sono anche le ombre; ed è manovrando le ombre che Vittorio Storaro traspone cinematograficamente una tensione figurativa che attraversa tutta la storia delle arti.
Vittorio Storaro: gli altri film iconici
Luce, colore e ombre sono i tre strumenti che questo maestro dell’immagine tiene insieme come un direttore d’orchestra, collaborando e dando vita allo spirito visionario di alcuni dei più grandi registi del cinema moderno e contemporaneo. Rimane nella storia la sua collaborazione con Francis Ford Coppola per Apocalypse Now.
Nel film, il giallo del napalm assume figurativamente la funzione di rappresentare la violenza dei processi di civilizzazione durante la guerra del Vietnam, scagliato contro il verde della giungla, un ambiente ostile, ignoto e metaforicamente sconfinato che sarà l’oblio per tanti soldati americani. Così, come, nello stesso film, il primo piano di Marlon Brando nel personaggio del colonnello Kurtz, tagliato da ombre che fanno fluttuare il suo viso donando pathos al monologo finale. Sempre con Coppola, Storaro firma la fotografia di One from the Heart del 1981, in cui ha la possibilità di dare libero sfogo alle sue ispirazioni visive in un musical romantico con tinte accese.
L’eredità teorica di Vittorio Storaro
Vittorio Storaro è stato autore di tre libri in cui ha esposto la sua pratica. Un risultato che si deve soprattutto alla sua ricerca teorica, alla sua capacità di unire diversi riferimenti figurativi alla conoscenza tecnica, quella imparata nella prima parte della sua vita.
In Scrivere con la luce espone nel dettaglio le sue teorie conseguite della sua esperienza, cercando di trasformare, quindi, la pratica in teoria. Ciò che ne consegue è una visione della luce e del colore come una materia spirituale. I colori rappresentano quasi una materia divina, in quanto sono l’unione di luce e oscurità. Quando luce e colore sono parte di un sistema di comunicazione (quale è, il cinema), va tenuta in considerazione la loro valenza simbolica, delineando, quindi, le tonalità a seconda delle situazioni.
L’importanza della pratica di Vittorio Storaro nel cinema risiede proprio in questo: la capacità di costruire conoscenza da un lavoro che è prettamente pratico, appoggiandosi alla materia più indagata nella storia di tutte le arti: la luce.