Esperienza, grande cultura e continuo aggiornamento sono alla base del lavoro di Marco Filibeck, uno dei lighting designer italiani più importanti. Conosciuto soprattutto per il suo ruolo cruciale al Teatro alla Scala di Milano, dove è entrato nel 1985, ha coordinato e progettato l’illuminazione per produzioni ai quattro angoli del globo, occupandosi anche di eventi d’arte, moda e mostre fotografiche.
Qual è la sua storia lavorativa e come si è avvicinato al mondo dell’illuminazione teatrale?
«Ho iniziato a lavorare con la luce per i live musicali alla fine degli anni ‘70 – inizio ‘80. Tutto stava nascendo, in Italia ero una sorta di pioniere; mi sono trovato al posto giusto nel momento giusto, ho incontrato Vasco Rossi giovanissimo e con lui ho iniziato ad approcciare il lighting. Ho colto l’occasione che mi si è presentata in modo casuale, come spesso succede, e alla fine di quell’esperienza durata più di 5 anni, avevo realizzato circa 200 concerti per Vasco e altri personaggi della musica italiana, come Enzo Jannacci e Loredana Berté. I tour musicali però erano eventi prevalentemente estivi, e io avevo bisogno di dare continuità al mio lavoro. All’epoca abitavo a Bologna e decisi di seguire un corso biennale della regione Emilia Romagna per tecnici teatrali; conseguito il diploma iniziai a lavorare con dei brevi contratti al Teatro Comunale di Bologna. Qualche tempo dopo partecipai a una selezione per elettricisti del Teatro alla Scala e venni preso. Decisi quindi di trasferirmi a Milano cominciando il percorso che mi ha portato dove sono oggi. È stato un lungo viaggio, a tratti sofferto, sono partito dal basso e mi sono preso responsabilità via via crescenti fino a essere nominato lighting designer residente del Teatro. È un viaggio davvero lungo, solo la collaborazione con il teatro alla Scala dura da 38 anni! Attualmente ho scelto di interrompere il rapporto stabile con l’istituzione; continuo a collaborare su singole produzioni e lavoro anche per importanti teatri esteri, come l’Opera House di Sidney, il New National Theatre di Tokyo, il Teatro Gran Liceu di Barcellona».
Come nascono le luci di uno spettacolo teatrale – si tratti di un’opera lirica o di un balletto – e a cosa si deve prestare attenzione?
«La luce negli ultimi tre decenni è diventata uno strumento espressivo importante e sempre più centrale nelle messe in scena, perché permette di supportare un racconto registico e drammaturgico che con il suo linguaggio, oltre che emozionale o estetico, può diventare concettuale. Non è sempre stato così, quando ho iniziato attorno al 1980 la tecnologia non era neppure paragonabile a quella di cui si dispone oggi, le aspettative erano diverse e commisurate allo stato dell’arte. Oggi dalla materia luce si pretende molto e la figura del lighting designer è stata ridefinita perché deve utilizzare tecnologie in continuo aggiornamento. Il lavoro è diventato molto più stimolante ma anche molto più complesso».
How much expressive freedom are you usually allowed?
«It depends a lot on the director, on his personality, on his approach to work. Some directors leave the lighting designers ample freedom, others want to be supported, but generally it is always a collaboration that is articulated through visual proposals and continuous checks. The lights of an opera, for example, must cover a path along several acts – two, three, sometimes four – in which settings, sets and often the tempo of the action can abruptly change. Quite often, working on different acts is like working on different shows. The language tries to be univocal, but there are always big differences from one moment to another».
Quanto spazio c’è per la sperimentazione in ambito teatrale?
«Il teatro come luogo della rappresentazione, è lo spazio naturale della sperimentazione. Il concetto stesso di “prova” – prova di regia, prova di regia in costume, prova di insieme, prova luci – sottintende che il palcoscenico si presta a ricercare delle soluzioni nuove e delle innovazioni dal punto di vista del linguaggio. Il teatro è stato da sempre la sede delle avanguardie. Prendiamo per esempio il ledwall ad altissima definizione, che è stato utilizzato come sfondo per “A riveder le stelle” nel 2020, con la regia di Davide Livermore; in quel contesto si è trattato di ricercare nuovi linguaggi per mettere in comunicazione la musica con l’arte visiva. Ci sono due aspetti però da considerare quando si fa ricerca: il budget – le tecnologie hanno dei costi elevati – non solo per il materiale ma anche per il personale specializzato che le deve gestire in maniera professionale, e le tempistiche sempre più compresse delle produzioni».
Software e sistemi di visualizzazione 3D la aiutano?
«Sono una possibilità, al Teatro alla Scala non li utilizziamo, ma mi è capitato di sfruttarli in altri contesti, ad esempio a Tokyo o a Londra. Quando il tempo di produzione on stage è ridotto ho provato ad avvalermi di strumenti di programmazione per impostare gli spettacoli. Nel caso dell’opera lirica però, a differenza del live musicale dove la programmazione è all’ordine del giorno e funziona molto bene, tutto è più complesso. La tecnologia digitale consente di gettare delle buone basi, si possono indagare delle possibilità attraverso delle visualizzazioni che aiutano a scegliere il tipo di luce o la posizione delle sorgenti. Però l’effetto dell’illuminazione sui materiali non è prevedibile in modo certo, ogni scenografia ha texture e finiture sempre diverse. Si usano i legni, le plastiche, i laminati, i tessuti, tutte le superfici rispondono all’illuminazione in maniera molto diversa».
In teatro le produzioni si avvicendano di continuo, oltre agli spettacoli in cartellone ci sono quelli in prova…
«L’impianto del Teatro alla Scala, che ho configurato in prima persona, viene aggiornato ogni anno inserendo apparecchi e tecnologie di ultima generazione. Dalla riapertura del Teatro nel 2004, al termine dei lavori per la torre scenica firmata da Mario Botta, tutto il materiale illuminotecnico venne rinnovato (la dotazione precedente fu lasciata in gran parte al Teatro Arcimboldi). Sono passati quasi 20 anni e quasi tutto il parco luci è cambiato di nuovo, gradualmente. Una stagione teatrale come quella della Scala comprende oltre 250 aperture di sipario all’anno se si considerano anche i concerti della Sinfonica. Il palcoscenico gira vorticosamente con cambi di titolo e cambi di scena, mediamente ci sono almeno due spettacoli in scena e uno in prova, i turni di lavoro coprono 21 ore al giorno. Le luci utilizzate oggi sono al 70% motorizzate e comandabili da consolle, questo permette di mettere in scena la replica della sera alle 20.00 interrompendo le prove in corso solo alle 16.00».
Quali sono i suoi progetti futuri?
«I miei prossimi impegni mi porteranno in giugno all’opera di Roma per una “Madama Butterfly” con la regia di Alex Ollè della Fura dels Baus, nata all’aperto per Sidney e Caracalla e per la prima volta al Costanzi, e poi al Regio di Torino immediatamente dopo, ancora con una Butterfly ma con la regia di Damiano Michieletto. Poi ci sarà una nuova produzione alla Scala nel mese di ottobre 2023. Si tratta di un’opera rara intitolata “L’amore dei tre re” di Montemezzi, nuovamente con la regia di Alex Ollè e le scene incredibili di Alfons Flores, di cui non posso anticipare nulla, ma sarà qualcosa di mai visto prima».