Dopo la Laurea in Disegno Industriale – con la tesi coordinata da Carlotta de Bevilacqua, presidente di Artemide – nel 2015 Sara Moroni apre il proprio studio collaborando da subito con aziende di settore come Penta Light, Platek, Il Fanale, Axolight, Masiero, Zafferano. La luce è solo una delle sue passioni; ama progettare in ambiti diversi, Achille Castiglioni uno dei suoi riferimenti.
Il design è un settore che macina progettisti e oggetti, alla velocità di un mercato che spesso dimentica e consuma. Per farlo ci vuole un’enorme costanza e dedizione; tu hai sempre avuto la vocazione al progetto?
«Inconsapevolmente ho sempre allenato e stimolato la mia “creatività” (così come la intendeva Munari) tramite curiosità, disegno e molta manualità, ma solo al liceo ho capito che la mia vocazione sarebbe stata la progettazione: unione di competenze umanistico-artistiche a quelle più razionali tecnico-scientifiche. È stata quindi una presa di consapevolezza lenta e continua, e mai pilotata, che mi ha portato con entusiasmo a occuparmi di design e architettura».
Quali sono gli strumenti che usi per progettare?
«Scelgo gli strumenti in funzione dell’obiettivo che desidero raggiungere. Che si tratti di lighting design, interior o industrial design, iniziò l’attività progettuale senza strumenti specifici. La prima fase, la più significativa, è costituita solo da analisi e riflessioni sul tema in oggetto. Quando le idee iniziano a prendere forma nella mente, tento di cristallizzarle su un semplice foglio di carta. Non sono ancora disegni definitivi ma spunti e dettagli utili che mi porteranno a definire con chiarezza le caratteristiche del progetto. È un processo che può apparire anacronistico nell’era della digitalizzazione, ma che ritengo essere molto funzionale perché “slow”: lascia il tempo alla mente di razionalizzare i pensieri».
Spesso per un progettista le soddisfazioni più grandi non coincidono con i progetti più riusciti, nel tuo caso come sta andando?
«Ogni progetto, dal più piccolo al più grande, è frutto di un percorso creativo unico e spesso complesso che a prescindere mi suscita molta gratificazione. La riuscita di un lavoro è determinata da molteplici fattori, talvolta esogeni, che spesso nulla hanno a che vedere con la capacità del designer. Personalmente sono moltissime le soddisfazioni che questa professione mi sta regalando. Mi gratifica percepire le emozioni inconsapevoli e inattese delle persone che vivono gli spazi da me illuminati, l’apprendere che alcuni professionisti scelgono di inserire nei loro progetti un mio prodotto di design».
A proposito di prodotti; la tecnologia dell’illuminazione è simbolo di una costante evoluzione, dalle sorgenti all’uso smart. Tu che hai vissuto alcuni di questi cambiamenti, quali riflessioni puoi fare?
«Ho iniziato la professione in un momento delicato, caratterizzato dall’immissione sul mercato di una nuova tecnologia: il Led. Questa sorgente ha cambiato radicalmente il modo di progettare i prodotti d’illuminazione e di illuminare gli spazi: estremamente piccolo, efficiente e capace di garantire molti anni di esercizio, da subito, è sembrato interessante e rivoluzionario.
Con gli anni le performance sono molto migliorate, così come l’affidabilità del diodo e la capacità tecnica del progettista nel saperlo gestire al meglio. Nonostante le inevitabili difficoltà legate alla transizione, che ci ha portati dalle sorgenti tradizionali al Led, sono forte sostenitrice del cambiamento tecnologico. Grazie a questa tecnologia ho potuto disegnare prodotti molto compatti, senza sacrificare il rendimento e illuminare grandi architetture senza snaturare il luogo».