Cezanne e Renoir al Palazzo Reale di Milano, Van Gogh al Museo Revoltella di Trieste, Caravaggio al Palazzo Mazzetti di Asti sono alcune delle mostre più recenti illuminate da Francesco Murano.
Architetto e lighting designer nato a Palma Campania, ha dedicato la sua vita alla ricerca della giusta luce per le opere nelle mostre d’arte. Lo abbiamo incontrato per intraprendere con lui un breve viaggio alla scoperta di un mestiere che fa della qualità della luce e di un’attenta progettazione elementi fondamentali per la corretta lettura di un manufatto artistico.
Qual è la sua storia di progettista e come ha iniziato il suo percorso nel campo dell’illuminazione delle opere d’arte?
«Mi occupo di luce da sempre. Ho iniziato a 14 anni scattando fotografie e stampando i negativi di notte nel bagno di casa. Dopo essermi laureato a Roma in Composizione Architettonica, ho frequentato un master della Domus Accademy di Milano sotto la guida del mio maestro e mentore Clino Clini Castelli. Subito dopo, ho conseguito un dottorato di ricerca in disegno industriale con una tesi di laurea dal titolo Le figure della luce, che proponeva una lettura eidetica del fenomeno luminoso. Mi sono poi dedicato alla progettazione di lampade e infine alla progettazione illuminotecnica focalizzandomi sul tema museale. Da allora ho illuminato più di duecento grandi mostre d’arte».
Quanto il passaggio dalle sorgenti tradizionali al Led ha rivoluzionato il suo approccio progettuale?
«Non ha influenzato minimamente il mio approccio progettuale, ma ha influito molto sulla “tenuta” del progetto lungo tutta la durata di una mostra. In passato, con le sorgenti alogene, occorreva procedere a continue sostituzioni in quanto le lampadine arrivavano a fine vita molto velocemente. In molti casi ad intervenire per le sostituzioni non era personale specializzato e ciò finiva spesso per snaturare il progetto, con puntamenti sbagliati o con l’impiego di lampadine di scarsa qualità. Con i Led praticamente non ci sono sostituzioni e quindi la mostra conserva il progetto originario fino alla fine».
Da Caravaggio a Andy Warhol passando per Monet e Picasso. Durante la sua carriera ha avuto la possibilità di illuminare le opere di artisti profondamente differenti tra di loro e di lavorare con tanti curatori. Quanto l’opera in sé e quanto il taglio critico del curatore influenzano e stabiliscono le linee guida di un’esposizione?
«L’illuminazione di un’opera d’arte rappresenta sempre un arbitrio perché, specie per gli artisti del passato, a nessuno è concesso sapere con certezza come l’autore avrebbe voluto che l’opera fosse illuminata. Io cerco comunque di trasformare questo arbitrio in interpretazione, perciò mi confronto con il curatore cercando di adeguare il mio lavoro al taglio critico dato all’esposizione. Più che fare esempi vorrei suggerire delle costanti: una di queste riguarda la temperatura di colore, cioè la tonalità della luce che, per convenzione, è più calda per le opere classiche e antiche è più fredda per le opere recenti e contemporanee».
Nel corso degli anni avrà sicuramente sviluppato un metodo personale nella progettazione dell’illuminazione delle opere d’arte. Può riassumerne i punti principali e svelarci qualche trucco del mestiere?
«Il metodo che adotto è basato sul continuo rapporto con i progettisti, gli organizzatori e i curatori. Affianco sempre le maestranze presenti durante gli allestimenti. Nel corso degli anni ho sempre avuto la fortuna di trovare persone con decenni di esperienza nel settore i cui consigli e suggerimenti ho trovato molto preziosi.
Più che un trucco darei ancora qualche consiglio: essere umili, avere occhi per imparare dagli errori e dai meriti degli altri tenendo sempre presente che il nostro compito è quello di mettere in contatto i visitatori di una mostra con l’autore di magnifici capolavori attraverso l’appagamento estetico che può derivare anche da una buona e corretta illuminazione».