Cover photo: Andrea Isola, ph. Rafael Arocha
Con una formazione da architetto, Andrea Isola lavora nel campo dell’exhibition design dal 2018 e oggi può vantare numerose collaborazioni con musei, fondazioni, fiere e gallerie, in Italia e in Europa. Con lui abbiamo approfondito il tema dell’illuminazione per mostre e musei attraverso una rassegna di alcuni dei progetti degli ultimi anni.
Entrando la prima volta in uno spazio da allestire, come ti relazioni con esso e quali sono gli aspetti che tieni da conto?
«La prima reazione è quella di camminare nello spazio, cerco di capire quali sono i punti di forza, i coni ottici da sfruttare, come la luce naturale e artificiale interagiscono e cerco di rendermi conto fisicamente di come percepisco l’ambiente, come se fossi un visitatore.
Tutto ciò mi aiuta ad avere un’idea più chiara su come sviluppare il percorso di mostra. Penso che solo mettendosi nei panni del pubblico si possano veramente capire i lati positivi o negativi di un allestimento, ed è per questo che durante l’anno vado sovente a vedere mostre. Un altro aspetto fondamentale durante il primo sopralluogo è fare più domande possibili al proprietario o gestore. Di qualsiasi tipo, da “si possono bucare le pareti esistenti?” a “è possibile integrare altra illuminazione? Da dove arriva la corrente?”. Questo perché molte volte mi capita di avere la possibilità di entrare solo una volta all’interno dello spazio, prima del cantiere, e devo sfruttare quel momento per eliminare ogni dubbio durante la fase progettuale e evitare perdite di tempo successive».
Parliamo della tipologia espositiva white box, uno spazio spoglio di grandi dimensioni con la prevalenza di un’illuminazione fredda artificiale. Come si può intervenire?
«Un vero e proprio foglio bianco che, anche con piccole modifiche a basso costo, può essere trasformato o adattato. Tra questi accorgimenti, ad esempio, risaltano l’utilizzo dei colori e l’illuminazione. Il buio e le ombre, invece, creano dei vuoti e l’occhio rimane sempre più attratto dalla fonte luminosa, quindi, a volte si riesce a creare un percorso anche solo gestendo il puntamento dei faretti, senza l’ausilio di pareti o ostacoli fisici che magari risulterebbero extra budget. Due mostre all’interno di white box che ho progettato nell’ultimo anno, sono Heatwave e Voci Nascoste entrambe dentro Camera Torino, in due sale differenti. Una caratteristica della prima era la presenza di fotografie a parete e di lightbox autoportanti. Questo mix, che doveva convivere nello stesso open space, ci ha fatto prendere la decisione di lasciare una parte della sala illuminata puntualmente con i faretti sulle fotografie, esposte su pareti bianche, mentre per il resto è stata fatta una valutazione completamente differente: le pareti e il pavimento sono stati trattati con un blu notte e l’illuminazione è stata spenta, in modo da permettere alle opere di risaltare maggiormente.
All’interno di Voci Nascoste invece, abbiamo cercato di illuminare la sala nella maniera più omogenea possibile data la presenza di un elevato numero di opere, sia sulle pareti laterali che al centro dello spazio espositivo. Ovviamente, trovandoci all’interno di uno spazio con un’illuminazione con binari e faretti, la posizione delle pareti autoportanti centrali, disegnate su misura per la mostra, è data sia per una questione di percorso espositivo, sia per garantire ad ogni parete la giusta illuminazione e non creare ombre sulle pareti laterali esistenti».
Se invece passiamo ad uno spazio più caratterizzato come una galleria, o un palazzo storico, con percorsi più limitati e una luce più intima e calda?
«In questo caso i limiti progettuali sono maggiori e aumenta il grado di sfida e difficoltà nel dover inserire un progetto di allestimento ad hoc. A volte, però, avere determinati paletti da cui partire può anche essere un punto di forza. Due mostre, esempi di sfide che ho dovuto affrontare quest’anno sono: State of Emergency all’interno della Corte Medievale di Palazzo Madama a Torino. Una location tanto bella quanto complessa, caratterizzata dai soffitti molto alti e un pavimento completamente vetrato che affaccia sui resti delle mura romane della città. Progettare un allestimento in un luogo così, è difficile: si deve lavorare in un limbo tra il non far sembrare il nostro intervento troppo ingombrante e, allo stesso tempo, fare in modo che non sparisca nella bellezza del palazzo stesso. La richiesta di artista e curatore è stata quella di ricreare una sorta di “archivio storico” in cui esporre le opere, da qui è nata l’idea di disegnare delle griglie metalliche con un’illuminazione fredda integrata che ricordasse quella di un archivio.
Poi c’è stata Psiche allo specchio. Omnia vincit amor alla Galleria BPER a Modena. Uno spazio contemporaneo già ben definito, in cui progettare un percorso di mostra che comprendesse opere antiche, moderne e contemporanee realizzate con diverse tecniche come pittura, scultura, acqueforti… In questo caso, dovendo lavorare con l’impianto di illuminazione esistente, il puntamento dei corpi luminosi è stato un passaggio delicato e fondamentale per la riuscita della mostra».
Nei tuoi progetti non ci sono solo mostre ma anche allestimenti per fiere e quindi la divisione dello spazio in diversi stand e aree, ognuna caratterizzata da opere diverse, quali sono le regole che segui durante questa tipologia di intervento?
«Progettare una fiera è un lavoro di mesi che viene fatto di pari passo con lo staff. Inizialmente studio un layout in cui delineo lo scheletro principale e i migliori percorsi per i visitatori, suddividendo lo spazio per aree, da quelle per le gallerie, alle aree relax. Successivamente, in base alla tipologia di stand venduti e alla loro grandezza, si entra nei dettagli, si preparano i capitolati di pannelli in legno e impianto di illuminazione e si organizzano le fasi di cantiere. Un fattore importante per me, come per le mostre, è quello di immedesimarmi nel visitatore e nel cliente (quindi i galleristi), ponendomi parecchie domande sulla reale vivibilità e utilità dei luoghi che sto progettando».
Puoi raccontarci con qualche esempio le differenze di come hai utilizzato la luce nei tuoi progetti per esaltare un’opera d’arte tradizionale, come un quadro o una scultura, e un’opera digitale interattiva?
«Dico sempre che l’allestimento dev’essere il miglior supporto possibile in funzione delle vere protagoniste delle mostre: le opere d’arte. Quindi, anche la luce dev’essere utilizzata in quest’ottica. Si passa da opere che non si illuminano direttamente, ma attraverso luce diffusa, come capita spesso nelle gallerie d’arte contemporanea, a opere di arte antica che hanno bisogno, invece, di un’illuminazione puntuale e con un controllo dei lux per evitare che l’opera venga danneggiata perché molto fragile. Un lavoro completamente differente si fa, invece, nel caso delle sculture: qui il gioco di luci e ombre è fondamentale per esaltare la tridimensionalità dell’opera, le curve e ogni dettaglio. Poi c’è il caso delle opere digitali, quelle retroilluminate, i così detti lightbox, la video arte, in cui si cerca di non illuminare con luce diretta perché hanno bisogno del buio per risaltare nella maniera migliore. Ogni tipologia di opera ha bisogno di un suo trattamento di illuminazione e, quando non possiamo intervenire sull’impianto già presente, bisogna trovare dei compromessi adatti che cerchino di esaltare quelle caratteristiche».