La vita professionale di Alessandro Pedretti è senza dubbio affascinante: designer, architetto, rinomato ricercatore e collezionista di design, ha collaborato con le più importanti aziende italiane e internazionali sia nell’ambito dell’arredo che dell’illuminazione: Abet Laminati, Emmemobili, Meritalia, Modo, Metalco, Repower e ancora Artemide, Fontanarte, Siteco, Trilux, Viabizzuno, Disano, Performance in Lighting e Imoon.
Un’esistenza dedicata all’ideazione e allo sviluppo di prodotti che si distinguono per la forte identità estetica ma anche in quanto coerenti con il concetto di produzione industriale, di immagine e percezione della luce. Lo confermano anche i numerosi premi che ha ricevuto negli anni: dall’ IF Gute Form all’ Adi Index – Selezione Compasso d’Oro passando per i premi Red Dot e Macef. Sono firmati da Pedretti i progetti illuminotecnici della linea ad alta velocità della città di Brescia, l’interior e lighting design del Museo del Novecento di Milano, inaugurato nel 2010 in collaborazione con lo Studio Rota del quale è project partner, il piano nobile del Galleria Nazionale delle Marche/Palazzo Ducale di Urbino, oltre a innumerevoli lighting set per mostre temporanee, allestimenti, musei e boutique in tutto il mondo.
Alte prestazioni, comfort visivo, efficienza. Sono solo queste le caratteristiche che oggi vanno ricercate in un prodotto di illuminazione?
«Questi sono solo i punti di partenza, elementi da cui non si può prescindere. Lo spettro del mondo della luce è così vario che richiede di volta in volta un’assunzione di differenti anime e parametri. Da due secoli l’uomo ha cercato di compensare la luce naturale con quella artificiale; siamo consapevoli che l’infinita varianza, gli spettri e la dinamicità della luce naturale che circonda il pianeta rappresentino la base della nostra vita e della nostra evoluzione. Esplorare con tecniche artificiali gli spettri della luce sensoriale, è qualcosa che ci permetterà sempre di più di vivere in simbiosi con l’ambiente e gli spazi che ci circondano. Questo vuol dire anche immaginare un nuovo modo di progettare che ha come scopo la simbiosi tra tecnica e natura, tra percezione e prestazioni. Pensiamo all’opera d’arte forse più conosciuta al mondo: La Gioconda. Gli occhi di chi l’ha dipinta più di 600 anni fa, avevano una percezione della luce completamente diversa da quella che abbiamo noi. Candele e luce del sole, diretta o riflessa, luce dinamica per intensità colore e direzione erano le uniche risorse “visive” di chi ha creato il quadro. Oggi questa opera è perfettamente illuminata con le più performanti e assolute tecniche della luce artificiale mentre per 500 anni ha vissuto di sola pura luce naturale. Cos’è giusto? Mantenere una luce che ci riporti all’atmosfera naturale nativa del quadro o cristallizzarla in un light box? Forse Leonardo, aveva già pensato che un giorno, più o meno lontano, una luce nata dall’artificio e dalla tecnica, perfettamente calibrata, avrebbe magnificato la sua opera».
Progettare un prodotto nel 2023 è diverso rispetto a quando ha iniziato la sua carriera? Quanto le nuove tecnologie e i nuovi processi produttivi hanno condizionano il suo modo di affrontare il design di prodotto?
«Più di una decina di anni fa, quando si sono diffuse le sorgenti Led si sono immediatamente poste nuove regole e presupposti nella gestione del progetto. Si arrivava da schemi immutabili, da sorgenti di luce consolidate, per cui dopo una iniziale frenesia di “integrazione” solo il tempo e la ricerca hanno permesso di comprendere appieno le nuove libertà e opportunità che la nuova tecnologia Led offriva a livello di progetto. Oggi è la velocità l’elemento che condiziona e detta molti principi nella progettazione. A livello di sistema e processo, è necessaria una nuova interazione tra designer e azienda di produzione. Serve una visione che comprenda nuovi e differenti aspetti del concetto di ideare e realizzare, strategie coordinate tra azienda, designer e distribuzione. Il mercato segue questa velocità e se si sbaglia si rischia di disperdere energie e sforzi. Per essere vincenti bisogna avere un’idea molto chiara di quelli che sono i fattori strategici. A livello comunicativo non possiamo non affermare di essere sostenibili ed ecologici; la chiave però è in come intendiamo il concetto di sostenibilità di una azienda, di un prodotto o di un processo. Immaginare di realizzare un prodotto che ha le potenzialità di durare nel tempo o di adattarsi al cambiamento delle esigenze. Un oggetto pensato in modo tale da poter essere rinnovato tecnicamente e funzionalmente e addirittura di essere tramandato e magari terminare un giorno la sua vita in un museo o collezione così da essere esso stesso testimone della sostenibilità. Questo vuol dire avere un pensiero di efficienza ambientale al di sopra di ogni luogo comune».
Oltre ad essere architetto e designer lei è anche un collezionista di oggetti di design. Nel 2006 la Triennale di Milano ha infatti dedicato alla sua ampia collezione una mostra intitolata “Looking For…” Cosa rappresentano per lei quegli oggetti del passato e quanto l’osservazione dei loro dettagli influenza il suo modo di essere designer oggi?
«Da sempre penso che per progettare si debba sapere osservare e riflettere. Non basta farsi scorrere davanti immagini di oggetti, prodotti e materiali. Oggi sempre di più la focalizzazione di una idea nasce anche da un bagaglio immenso di forme, storie, tecniche, relazioni reali con gli strumenti della nostra professione, i prodotti e l’uomo. Non concepisco la non conoscenza e l’ignoranza; se devo disegnare una lampada devo conoscerne non 10, non 100 ma tutte le lampade della storia.
Per avere un’intuizione, la mia enciclopedia mentale deve anche scandagliare i meandri dei tipi, archetipi e connessioni evolutive, relazioni, materiali e soluzioni. Bisogna un po’ anche essere archeologi e scienziati (darwiniani) del design per comprendere processi evolutivi che non si possono studiare nei libri o sfogliare su un iPad così da avere gli strumenti e le tracce per anticipare quello che sarà il domani del progetto, che sia una lampada, una seduta o un computer portatile».
Bruno Munari nel suo libro Da cosa nasce cosa spiegava quanto fosse importante avere un buon metodo progettuale, un ordine logico di operazioni dettato dall’esperienza e continuava affermando che «ci sono persone che di fronte al fatto di dover osservare delle regole per fare un progetto, si sentono bloccate nella loro creatività». Dal suo punto di vista quanto la creatività è improvvisazione e quanto è metodo?
«Ci vuole visionarietà e veggenza, assecondando il proprio personale metodo e la propria sensibilità. Ci sono regole fatte per essere disconosciute, è questa la forza e affermazione del design italiano: imparare una lezione per poi dimenticarla e ricominciare da capo, partire da una strada e finire altrove, pensare alla forma e diventare poi astratti, avere dei riferimenti trasversali con il progetto che vogliamo realizzare, lavorare senza regola e realizzare un prodotto “irregolare” piuttosto che rientrare in un processo codificato al 100%. Tornando al nostro progettista Leonardo, che probabilmente è da considerarsi il primo designer dell’umanità, il suo sapere trovare delle regole fuori dal contesto, affermarle o disconoscerle allo stesso tempo, ha permesso a tutti, ancora oggi, di godere dei benefici della sua fantastica veggenza».