Cover photo: Ca’ d’Oro a Venezia, scena oro – ph. Angela Colonna © courtesy Studio Pasetti
Per l’architetto e lighting designer Alberto Pasetti Bombardella, quello della progettazione della luce è un campo complesso che coinvolge aspetti scientifici, percettivi e culturali. Il suo metodo progettuale pone al centro i processi cognitivi e fisiologici che regolano il rapporto tra spazio, materiali ed esperienza umana, in cui la luce diventa strumento narrativo ed emozionale. Soprattutto nell’ambito museografico.
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Nel corso della sua carriera ha sviluppato un approccio progettuale che pone al centro la percezione e l’interazione tra luce, architettura ed esperienza. Come è nato questo suo modo di intendere il progetto della luce?
«Inizialmente non era un interesse diretto per la luce ma complessivamente per la museografia, un’arte delicatissima della progettazione che avevo amato fin dall’Università con l’insegnamento di Carlo Scarpa che traspariva dalla poetica dei suoi lavori e da alcuni dei seguaci, docenti presso l’Università di Architettura di Venezia. Dalla passione per esporre i beni culturali ad un vero e proprio culto della luce il passo fu semplice, perché l’uno non poteva sussistere senza l’altro. Capii fin dai miei studi in California, presso la Fondazione Getty, che il mondo della ricerca e delle nozioni scientifiche dovevano fondersi in una visione progettuale di grande respiro per riuscire ad affrontare il tema della tutela e della progettazione dello spazio espositivo. L’idea era che il tema della valorizzazione potesse crescere sulla scia dei grandi maestri che avevano segnato la storia del progetto espositivo nel nostro paese ma anche all’estero. Per prima cosa studiai il valore della luce naturale per comprendere quali implicazioni potessero innescarsi nel rapporto con lo spazio, con le superfici e con i materiali in un connubio ideale tra architettura virtuosa, opere o reperti da esporre e la luce quale principio regolatore tra emozioni e curiosità culturali. Gli anglosassoni, tuttavia, avevano già decretato il crepuscolo dei sistemi di regolazione fisico-meccanica del flusso di luce naturale, da finestre e lucernari nei musei d’Arte, a favore di una più stabile luce artificiale. Pertanto, agli inizi degli anni’ 90 si consolidavano le opzioni di scelta sulle tecnologie per illuminare oggetti e spazi che, come sappiamo, hanno compiuto trasformazioni innovative straordinarie fino ai giorni nostri. Da quel momento inizio la sfida dell’esporre secondo lo stato dell’arte di un universo tecnologico che doveva servire a scardinare gli stilemi ed i canoni di una tradizione ottocentesca che ancora non voleva estinguersi».
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Ognuno di noi ha una propria coscienza percettiva che muta e si arricchisce con il trascorrere della vita. Un progetto di luce è capace di parlare a questa nostra sensibilità, di renderci partecipi di una narrazione, di un racconto. Lo è ancora di più, o comunque in maniera differente, se il progetto è dinamico. Un esempio di ciò può essere il suo intervento alla Cà d’Oro di Venezia o a Palazzo Schifanoia di Ferrara.
«Si certo, il dinamismo è un motore potentissimo nella comunicazione visiva ma bisogna essere molto cauti a non abusarne. Mi spiego meglio: la scena di contemplazione è frutto di una regia meticolosissima nel progetto di comunicazione, è l’approdo di un insieme di ingredienti che devono essere calibrati e coordinati con molta attenzione. Molte opere nel Cinquecento avevano la prerogativa di riferirsi a scene religiose o alla rappresentazione di momenti di vita della quotidianità, in cui l’effetto diacronico era implicito. Questo accadeva perché l’artista aveva concepito accadimenti temporali diversi nella stessa composizione. Si potrebbe definire il dinamismo implicito, a fronte di quello esplicito, quando nella rappresentazione statica gli accadimenti sono rappresentati in un susseguirsi temporale all’interno della composizione artistica. Quando invece gli accadimenti temporali costituiscono una scelta del progetto di valorizzazione affinché l’opera o l’architettura possa prendere una forma mutevole in evoluzione, lo stimolo è esplicito e mira a catturare tutta l’attenzione dell’osservatore perché apre dei canali neurali nuovi ed inattesi. Per questa ragione è molto interessante capire come funzionano le nostre emozioni, le connessioni sinaptiche e le reazioni fisiologiche che si innescano sulla scia del nostro sistema percettivo formato attraverso una vita di esperienze. Mentre non avrebbe molto senso applicare una narrazione dinamica ad un’opera di cubismo o di futurismo, essendo già integrate dall’idea del movimento, può essere invece stimolante operare su un’opera o un’architettura apparentemente immobile. La facciata della Ca’ d’Oro ha costituito un’occasione senza precedenti nel trasformare un “non” dinamismo implicito in una forma espressiva che tramite il movimento nella percezione di strati architetturali, dall’interno all’esterno, ha stravolto il concetto bidimensionale della percezione architetturale nella notte. Il suggerimento, in questo caso, è venuto dall’acqua rispetto alla pietra che, nel suo moto perpetuo e discontinuo, ha fornito quello stimolo percettivo che pone a Venezia la visione in continua evoluzione.
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Il Salone dei Mesi, a Palazzo Schifanoia, è tutt’altra situazione in cui le opere parietali realizzate a fresco e a secco sono scandagliate da più di 50 scene luminose e valorizzano particolari collegati simbolicamente tra loro. In questo caso, la mente spazia vagando tra le diverse forme di apparizioni scoprendo gli aspetti più inaspettati di un apparato artistico unico nel suo genere tra divinità, astrologia e testimonianze di vita terrena quotidiana».
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Questo suo punto di vista ben si applica a interventi di valorizzazione dei beni culturali. Le ricerche sulle neuroscienze aprono scenari innovativi anche e soprattutto su ambiti che vedono la luce in relazione al benessere della persona. In che modo la progettazione illuminotecnica può contribuire a creare ambienti sani ed ergonomici che prendano in considerazione non solo le esigenze visive degli individui ma anche i loro bisogni biologici ed emotivi?
«Da anni ho imparato a distinguere tra progettazione illuminotecnica, lighting design e fisica quantistica. Quest’ultima ha portato lo stato di coscienza degli studiosi verso una visione olistica dell’energia che abbraccia i campi magnetici e si relaziona con tutto l’ambiente circostante. Diversamente, per quanto competeva all’illuminotecnica di vent’anni fa si può dire che sia stata integrata, nel tempo, da una visione più ricca e consapevole verso il lighting design che alcuni praticano oggi. Si tratta di un campo multidisciplinare in cui convergono diverse specializzazioni e saperi che non si basano solo sul puro nozionismo o la propensione al calcolo e al rispetto delle norme vigenti. Per me il campo e il ruolo di una progettazione consapevole della luce ha sconfinato dalle classificazioni canoniche e tradizionali. Faccio un esempio: se parliamo di un museo d’arte saranno sicuramente coinvolte le prescrizioni per la conservazione delle collezioni. Sarà affrontato il tema della valorizzazione del contenuto espositivo ma anche quello funzionale per la corretta deambulazione e per la sicurezza. Ci sarà un’attenzione particolare per l’architettura, lo spazio ospitante e per il rapporto interno esterno del museo. Nella coscienza collettiva non è sempre riconosciuto che ognuno di questi temi abbia una ricaduta nella fisiologia della percezione e nei conseguenti stati di benessere psicofisici di colui che vive un dato ambiente. Il passo da un museo ad un’abitazione o ad un luogo per la cura della salute è rapido se si pensa a quanto la luce, trasversalmente, sia in grado di attivare nel nostro cervello e nel nostro corpo. Anche la contemplazione della “bellezza” in arte, nella architettura, nel paesaggio naturale, può generare degli stati di benessere che dalla produzione di endorfine ed ossitocine possono innescare una reazione dallo stato psicofisico immediato ad un beneficio che io definisco “a lento rilascio” nel corpo e nella psiche delle persone coinvolte. La luce, in un determinato dosaggio con una sua specifica qualità è portatrice di vita metabolica e di stimoli continui verso un ruolo terapeutico e rasserenante».
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Molti designer progettano ancora oggi solo per il senso della vista, si preoccupano unicamente di produrre qualcosa di bello da vedere (…) una cosa che ho imparato dal Giappone è proprio questo aspetto progettuale che deve tenere conto di tutti i sensi” diceva Bruno Munari. Crede che questa osservazione sia valida anche per la progettazione della luce?
«Negli anni mi sono fatto l’idea che il mondo della luce fosse molto più vasto di quanto fosse evocato nella disciplina dell’illuminazione artificiale o naturale. All’università ci insegnavano come calcolare con tabelle, carta e penna, l’illuminamento determinato dall’irraggiamento della luce del sole e, ancora prima a scuola come funzionasse la fotosintesi ma quando si trattava di comprendere quali fossero gli effetti sull’uomo, il campo era strettamente nozionistico e del tutto insufficiente. Ricordo due capisaldi fondamentali che mi stupirono e segnarono la mia propensione a comprendere cosa accadeva cerebralmente e fisiologicamente quando si veniva sottoposti a particolari stimoli. Uno tra questi era l’artista James Turrell che dall’arte visiva e sensoriale spostò il suo interesse alla scoperta della volta celeste e dei suoi effetti sull’uomo nel suo straordinario progetto del Roden Crater in Arizona. L’altro fu il neurobiologo Semir Zeki, precursore della Neuroestetica, che aprì le porte alla comprensione della corteccia visiva in relazione al mondo delle emozioni e della decodifica degli aspetti simbolici delle immagini e di come il cervello li recepisse. In tutti e due c’è sempre stato un approccio in parte umanistico e dall’altro scientifico.
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In questo senso Munari aveva intuito che il progetto può funzionare ad alti livelli solo con una profonda comprensione dei sensi. Di fatto un certo tipo di stimolo attiva le connessioni neurali alla base dell’emozione e dell’intensità psico-fisica di una esperienza immersiva. L’inaugurazione della sala Capitolare della Scuola Grande di San Rocco fu un’esperienza fatta in questa direzione in cui la progressiva illuminazione dei teleri di Tintoretto, a partire dall’altare, li svelava a coppie di due (uno per lato della sala) con, simultaneamente, l’attivazione della voce di due cantori sottostanti, per ogni dipinto, fino a circondare completamente gli spettatori attraverso un canto aulico che rendeva più vividi i colori e le figure delle composizioni parietali nella percezione sinestetica».